C’era una volta in America il FUFISM e non era poi così male. Poi arrivò in Italia e si trasformò in un pasticciaccio noto ai più come FUFFA.
Ma mentre in Italia l’accezione comune del termine non è certo delle migliori, in America il significato è più alto e nobile.
In America infatti FUFISM è l’acronimo di Functional User-Friendly Integrated Social Media e ci fa comprendere che i Social Media sono intesi come uno strumento facile da usare, integrato e funzionale a quello che è il vero scopo per cui sono nati: far incontrare e comunicare le persone, vicine e lontane, conoscenti e non, con le stesse passioni e le stesse visioni.
In Italia invece… la FUFFA non è acronimo di nulla: come ha scritto Riccardo Esposito nel suo articolo “Perché continui a condividere contenuti fuffa?”
La fuffa è qualcosa di inutile […] Secondo Wikipedia:
La fuffa è la tipica lanetta che si forma nei tessuti e che in genere si rimuove poiché anti-estetica. Proprio questa connotazione ha fatto sì che venisse usato (…) per indicare un eccesso inutile.
Un eccesso di lana sui tessuti, un batuffolo di polvere che si annida negli angoli della casa, matassa di stoffa inutilizzabile, chiacchiere senza senso.
Però! Che differenza eh?
A memoria d’uomo, il primo a parlare di FUFFA(H) è stato Rudy Bandiera nel 2011 su netpropaganda.net e il riferimento era vicino alla visione americana:
[…] se qualcuno si ostina a chiamare fuffah quello che in realtà è un complesso ed articolato lavoro di cesello, che si divide tra tecnica ed empatia, beh allora lo vogliamo accontentare chiamandola fuffah. Anche noi.
Ma era solo il suo personale riferimento. Il termine utilizzato si portava dietro un karma pesante, imposto dal vocabolario. Il resto (invidia, insoddisfazione cronica, senso di superiorità latente) ha dato vita al significato attualmente valido nel nostro Paese.
Leggo ogni giorno status al vetriolo di professionisti che non perdono occasione di puntare il dito contro presunti fuffologi e tuttologi e di prendersela con l’utente medio per la sua incapacità/impossibilità di (ri)conoscerli online e sui canali social.
Personalmente, mi piace molto più la definizione americana che quella italiana, anche perché (non vorrei dirlo ma…) di fuffologia in Italia siamo tutti affetti.
Siamo tutti esperti di cucina, canto, ballo, automobili (sia nella guida che nella vendita), idraulica, meccanica, make-up, moda, moto, calcio, medicina, alimentazione e la lista si potrebbe allungare ancora e ancora.
Se così non fosse, non staremmo a criticare di continuo la miriade di piccole e grandi cose fatte dagli altri. Non staremmo a (s)parlare dei risultati (presunti o reali) degli altri. Non saremmo intenti a cercare il pelo nell’uovo nelle realizzazioni altrui.
Credo piuttosto che la questione di fondo sia un’altra. Non so esattamente quale vocabolo possa definirla meglio. Penso sia un misto pericoloso di eccesso di autostima (io sono più bravo!) che in mancanza di riconoscimento sociale si trasforma in frustrazione (perché non mi calcolano?) e relativo PH acido, fino a incancrenirsi e diventare invidia prima e cattiveria dopo, con l’unico obiettivo di dimostrare al mondo intero che “quello/a” è solo un impostore!
Signori miei, un titolo di studio, gli anni di esperienza, la conoscenza dell’argomento, la passione nei confronti del proprio lavoro sono di certo elementi fondanti della professionalità, in qualsiasi campo. Ma l’onestà, l’integrità, il rispetto e l’empatia non sono secondi a nessuno.
Conosco diversi stimati professori che quando parlano non li capisce nessuno. Questo non li rende meno intelligenti o meno preparati. Solo meno empatici e meno capaci (almeno in apparenza) di adattarsi agli interlocutori. Tutto qui.
Non ne farei una questione di fondamentale importanza. Piuttosto, andrei avanti per la mia strada, soddisfatta e orgogliosa dei miei risultati, opterei per l’evergreen “vivi e lascia vivere” ed eviterei di perdere il mio tempo.
#Ecco.