Personal Branding: devi partire dal tuo atteggiamento

Personal Branding: devi partire dal tuo atteggiamento

Personal Branding: devi partire dal tuo atteggiamento
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Il personal branding altro non è che la tua reputazione, personale e professionale, offline e online. E dipende anche dal tuo atteggiamento.

 

Io ho provato a dire in giro alla gente comune che tipo di lavoro svolgo e mi sono resa conto che la definizione standard “a pappagallo” non basta. Si incantano. Sgranano gli occhi e portano indietro la testa, come a voler mettere a fuoco le mie parole su una lavagna invisibile.

Mi tocca quindi spiegare tramite esempi e sostituendo “personal branding” con “reputazione online”. A quel punto, la classica domanda che mi pongono è: a che serve?

E parte lo svarione improntato sulla differenza tra la persona e l’azienda, sull’utilizzo (sbagliato) di facebook, con esempi e contro esempi.

A quel punto sembra che comincino a mettere insieme i pezzi e… puntuali arrivano le domande che ti fanno comprendere che siete ancora molto lontani dal poter tagliare il traguardo insieme.

Il Personal Brand. Se ne parla da parecchio sul web, ma nella vita reale? No, in quella ancora non abbiamo raggiunto la copertura di tutta la popolazione. Forse perché il concetto non risulta chiaro (magari chiamandolo reputazione qualcosa cambierebbe), forse perché sul web (e sui social soprattutto) si corre, si ha dannatamente fretta e se non risolvi un problema specifico puoi stare certo che per gli utenti sarai solo un ostacolo da schivare in vista del traguardo.

Qualunque sia la motivazione, con l’approdo nel 2015 voglio provare a spiegare un po’ meglio e in modo ancora più diretto (se è possibile) il nocciolo della questione.

Quando parliamo di personal branding, parliamo del tuo atteggiamento. Ognuno di noi ne ha uno nella vita reale: possiamo essere i marpioni della situazione, i diplomatici, i giocherelloni, i depressi, i belli ma scemi, i brutti ma simpatici o molto altro: sarà quello l’atteggiamento con cui ci presenteremo e interagiremo con il resto del mondo.

E il nostro atteggiamento è frutto un po’ dell’ambiente in cui siamo cresciuti (e di ciò che ci siamo sentiti dire ogni giorno), un po’ della volontà innata di “brillare” di luce nostra. E non esistono atteggiamenti giusti o sbagliati. Esistono gli atteggiamenti e basta: purché se ne abbia uno.

Perché ognuno di noi è un misto di passioni, emozioni, esperienze, pensieri, idee, motivazioni e obiettivi. Ed è veramente difficile racchiudere tutto in un atteggiamento. Possiamo però scegliere ciò che davvero conta per noi, ciò che muove il Sole e l’altre Stelle, ciò che ci piace fare davvero, senza sentire mai la stanchezza fisica, ciò che ci fa perdere il senso del tempo (proprio come fanno i bambini quando giocano al loro gioco preferito: concentrati e motivati ad arrivare fino alla fine).

Quelle cose (almeno tre) ci definiscono come personal brand e determinano anche l’atteggiamento con cui noi vogliamo affrontare il mondo.

Quelle cose che ci rendono unici al mondo sono la nostra base di partenza per la nostra reputazione (anche) online: non sarà una cosa breve né indolore. Ci scontreremo con gli indifferenti, gli astiosi, gli avvelenati, i buonisti, i pacifisti, quelli da knock out.. ma tutto servirà a capire i limiti, smussare gli angoli e aggiustare il tiro, proprio come si fa nella vita reale. Il tutto condito da una buona dose di educazione, che male non fa mai e che prescinde dall’atteggiamento.

Ovvio che anche online, come nella vita reale, non potrai piacere a tutti. Ci sarà sempre qualcuno pronto ad attaccarti per ogni cosa scritta o pubblicata, ma poco importa. È un modo come un altro per confrontarsi e crescere. Non prendertela a male. Continua a gestire le tue interazioni personali esattamente come se fossi nel mondo reale: perché sempre di persone si tratta.

Ma online non è tutto oro quello che luccica e si scopre così che il 68% degli utenti altera la propria realtà raccontando di accadimenti mai accaduti, di emozioni solo teorizzate, di verità trasposte. Ne parla Riccardo Scandellari nel suo articolo Le vite straordinarie dei forzati del like

La popolarità non è un concetto nuovo, ma il poterla ricondurre a numeri, sì

Il numero di apprezzamenti e like pare sia capace di modificare il nostro atteggiamento nei confronti degli altri. E più crescono i numeri, più i nostri modi di fare risultano alterati, drogati dalla realtà (anche virtuale) che ci circonda. Ma a questo punto, smette di essere personal branding e comincia ad essere accettazione di sé attraverso gli occhi del mondo. E più il mondo ci guarda, più noi vogliamo essere apprezzati, anche a costo di dimenticare il nostro vero talento e ciò che ci caratterizza, diventando un comune ripiego, una fotocopia colorata ma dai contorni poco definiti di un disegno di cui il mondo è già pieno.

Considerare il numero di like un valore è la cosa più sbagliata che possiamo fare, come affermo da sempre, dobbiamo far percepire la nostra vera essenza con umiltà e senza eccessive manipolazioni; perché si sa, le bugie hanno le gambe cortissime.

Concordo con questa affermazione di Riccardo: fingere di essere chi non siamo non ci renderà migliori né più popolari e a lungo andare la nostra vera natura si paleserà. Di certo i tempi nell’online saranno più lunghi, ma il risultato finale sarà lo stesso dell’offline. E il gioco non vale la candela.

Sii te stesso, spontaneo e verace: solo allora personal branding e reputazione coincideranno, il tuo atteggiamento sarà unico ed univoco e gli apprezzamenti e la popolarità saranno veri. Ed esisterà un’unica versione di te: la migliore possibile.

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Cinzia Di Martino
Cinzia Di Martino
Mi definiscono (e mi definisco) una persona positiva, propositiva, decisa e ottimista (e anche chiacchierona). Sono laureata in informatica, ma ho una passione spropositata per blog, social media, marketing e web design.

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  1. Alfredo ha detto:

    Essere quello che siamo, senza cercare di essere quello che non siamo.
    Purtroppo, non di rado, ci si imbatte in soggetti che si nascondono dietro profili artefatti… forse il retaggio di un anonimato tipico della rete dei primi anni?

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